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Superbonus 110: l'(inesistente) tutela del terzi cessionari

Superbonus 110 e tutela dei cessionari: tra i tanti aspetti spinosi della contorta materia, è uno dei temi più caldi, perché coinvolge soggetti che, “invogliati” all’acquisto anche a seguito dell’(apparente) salvacondotto del DL 16/2023, hanno prestato fede alla promessa di poter acquistare crediti di imposta asseverati e certificati senza correre alcun rischio.

E, ahimè – guardando ai fatti – hanno sbagliato!

Superbonus 110 e tutela dei cessionari: storia di una fregatura annunciata?

La storia è nota. 

Il committente incarica l’impresa dei lavori relativi al superbonus per beneficiare del credito di imposta pari al 110% della spesa sostenuta; non avendo però così tante imposte da compensare (e spesso non avendo il denaro per anticipare la spesa) il committente individua un’impresa che accetti il cd. “sconto in fattura” ossia che accetti il suo credito (110) in pagamento delle spese di esecuzione dei lavori (100).

A questo punto il problema della liquidità passa all’impresa che deve cedere a qualcuno i crediti con cui è stata pagata per monetizzarli e pagare fornitori, dipendenti, imposte ecc.

Ed è qui che casca l’asino.

Occorre che un terzo, dotato di liquidità e di una considerevole somma di imposte da pagare, “acquisti” a sua volta il credito dall’impresa, ovviamente lucrandoci un po’.

All’inizio tutto funziona bene e Poste, Banche, fondi di investimento, assicurazioni fanno la fila per acquistare crediti di imposta.

Poi succede che – ahimè – qualcuno fa il furbo: succede che tecnici infedeli asseverino lavori su edifici che neanche esistono o che imprese nate dal nulla emettano fatture per operazioni inesistenti creando milioni di euro di crediti fasulli.

E allora sorge il problema: si muovono le procure e partono i sequestri “impeditivi”, anche presso quei terzi in buona fede che hanno comprato i crediti.

Ma come, in capo ai cessionari in buona fede?

Eh si, perché se il credito è inesistente, mica posso consentirti di usarlo, anche se l’hai comprato e pagato profumatamente, perché sennò si verifica un danno per l’erario!

Già, l’Erario: ossia il “debitore” di quel credito che, ad un certo punto, per il tramite del GIP di un qualche Tribunale ti dice: “Ok signori, abbiamo scherzato…”.

Le cinque sentenze “gemelle” del novembre 2022

Questa la situazione disegnata da cinque sentenze della Corte di Cassazione, precisamente la n. 40865/22, la n. 40866/22, la n. 40867/22, la n. 40868/22 e la n. 40869/22 che nel novembre 2022 hanno fatto una doccia gelata ad una serie di investitori istituzionali (Poste Italiane, Banco di Desio e della Brianza, Groupama solo per fare qualche nome): tutti incolpevoli, tutti in buona fede, tutti, come si suol dire “cornuti e mazziati”.

A seguito delle cinque sentenze “gemelle” il meccanismo che consentiva di mantenere in piedi tutta la struttura della misura incentivante subisce un (nuovo) blocco: sulla scorta del ragionamento posto in essere dalla Cassazione, appurato che alcuna norma tutela l’acquisto del credito da parte del cessionario, quest’ultimo per quanto in buona fede ed estraneo ad ogni ipotesi di frode, non ha alcuna garanzia della bontà del proprio acquisto nel caso in cui, a monte, sia stato commesso un reato o vi si una falsa asseverazione.

La circostanza è ben illustrata nelle motivazioni delle citate sentenze, che, dopo aver osservato che la normativa in allora vigente non contemplava alcuna salvaguardia dei crediti ceduti richiamano, ad ulteriore sostegno della propria tesi, anche le dichiarazioni rese all’audizione in Senato, V^ commissione bilancio, dal Direttore Generale dell’Agenzia delle Entrate in data 10 febbraio 2022, in cui (pag. 13) si legge testualmente: “Tuttavia, in caso di sequestro di crediti inesistenti da parte dell’Autorità giudiziaria, in quanto “cose pertinenti al reato”, tali crediti diventano inutilizzabili dal terzo cessionario, anche in buona fede, al quale pertanto non resta che rivalersi nei confronti del cedente. Difatti, l’azione di contrasto posta in essere da numerose Procure della Repubblica è spesso sfociata in sequestri dei crediti nei confronti degli intermediari finanziari, benché ad essere entrati materialmente in possesso dei profitti del reato – destinandoli con ogni probabilità a ulteriori attività illecite – siano stati i reali autori degli illeciti. In altri termini, in queste ipotesi i crediti sequestrati dall’Autorità giudiziaria non possono essere utilizzati dal cessionario, seppur in buona fede”.

Che fare dunque? Come riavviare la macchina?

A febbraio 2023 il Governo ha ritenuto di intervenire in via d’urgenza con il Decreto Legge n. 11 del 16/02/2023, poi convertito in legge  38/2023: da un lato per bloccare le cessioni per il futuro, e dall’altro al fine di garantire l’acquisto del credito da parte del terzo cessionario in buona fede.

L’apparente tutela del DL 11/2023

L’art. 1 comma 1 lettera b) del citato DL 11/2023, infatti, introduce un nuovo comma 6 bis nell’art. 121 del DL 30/2020 a mente del quale: “6-bis. Ferma restando, nei casi di dolo, la disciplina di cui al comma 6 del presente articolo e fermo restando il divieto di acquisto di cui all’articolo 122-bis, comma 4, il concorso nella violazione che, ai sensi del medesimo comma 6, determina la responsabilità in solido del fornitore che ha applicato lo sconto e dei cessionari, è in ogni caso escluso con riguardo ai cessionari che dimostrino di aver acquisito il credito di imposta e che siano in possesso della seguente documentazione, relativa alle opere che hanno originato il credito di imposta, le cui spese detraibili sono oggetto delle opzioni di cui al comma 1:

a)  titolo edilizio abilitativo degli interventi, oppure, nel caso di interventi in regime di edilizia libera, dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, resa ai sensi dell’articolo 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, in cui sia indicata la data di inizio dei lavori ed attestata la circostanza che gli interventi di ristrutturazione edilizia posti in essere rientrano tra quelli agevolabili, pure se i medesimi non necessitano di alcun titolo abilitativo, ai sensi della normativa vigente;

b)  notifica preliminare dell’avvio dei lavori all’azienda sanitaria locale, oppure, nel caso di interventi per i quali tale notifica non è dovuta in base alla normativa vigente, dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, resa ai sensi dell’articolo 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, che attesti tale circostanza;

c)  visura catastale ante operam o storica dell’immobile oggetto degli interventi oppure, nel caso di immobili non ancora censiti, domanda di accatastamento;

d)  fatture, ricevute o altri documenti comprovanti le spese sostenute, nonché documenti attestanti l’avvenuto pagamento delle spese medesime;

e)  asseverazioni, quando obbligatorie per legge, dei requisiti tecnici degli interventi e della congruità delle relative spese, corredate di tutti gli allegati previsti dalla legge, rilasciate dai tecnici abilitati, con relative ricevute di presentazione e deposito presso i competenti uffici;

f)  nel caso di interventi su parti comuni di edifici condominiali, delibera condominiale di approvazione dei lavori e relativa tabella di ripartizione delle spese tra i condomini;

g)  nel caso di interventi di efficienza energetica diversi da quelli di cui all’articolo 119, commi 1 e 2, la documentazione prevista dall’ articolo 6, comma 1, lettere a) e c), del decreto del Ministro dello sviluppo economico 6 agosto 2020, recante “Requisiti tecnici per l’accesso alle detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici – cd. Ecobonus”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 246 del 5 ottobre 2020, oppure, nel caso di interventi per i quali uno o più dei predetti documenti non risultino dovuti in base alla normativa vigente, dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, resa ai sensi dell’articolo 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445

h)  visto di conformità dei dati relativi alla documentazione che attesti la sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione sulle spese sostenute per le opere, rilasciato ai sensi dell’articolo 35 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, dai soggetti indicati all’articolo 3, comma 3, lettere a) e b), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e dai responsabili dell’assistenza fiscale dei centri costituiti dai soggetti di cui all’articolo 32 del citato decreto legislativo n. 241 del 1997

i)  un’attestazione, rilasciata dal soggetto che è controparte nella cessione comunicata ai sensi del presente articolo, di avvenuta osservanza degli obblighi di cui agli articoli 35 e 42 del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231. Qualora tale soggetto sia una società quotata o una società appartenente al gruppo di una società quotata e non rientri fra i soggetti obbligati ai sensi dell’articolo 3 dello stesso decreto legislativo n. 231 del 2007, un’attestazione dell’adempimento di analoghi controlli in osservanza degli obblighi di adeguata verifica della clientela è rilasciata da una società di revisione a tale fine incaricata;

i-bis)  nel caso di interventi di riduzione del rischio sismico, la documentazione prevista dal decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti n. 329 del 6 agosto 2020, recante modifica del decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti n. 58 del 28 febbraio 2017, recante “Sisma Bonus – Linee guida per la classificazione del rischio sismico delle costruzioni nonché le modalità per l’attestazione, da parte di professionisti abilitati, dell’efficacia degli interventi effettuati;

i-ter)   contratto di appalto sottoscritto tra il soggetto che ha realizzato i lavori e il committente.

Tale disposizione si inserisce nel quadro già delineato dai commi 5 e 6 del medesimo articolo.

Ai sensi del comma 5: “Qualora sia accertata la mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta, l’Agenzia delle entrate provvede al recupero dell’importo corrispondente alla detrazione non spettante nei confronti dei soggetti di cui al comma 1. L’importo di cui al periodo precedente è maggiorato degli interessi di cui all’ articolo 20 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e delle sanzioni di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471”.

Tale disposizione prevede che la sopravvenuta scoperta della mancanza dei requisiti che danno luogo alla detrazione di imposta comporti un recupero “dell’importo corrispondente” in capo ai soggetti di cui al comma 1, ossia “I soggetti che sostengono, negli anni 2020, 2021, 2022, 2023 e 2024, spese per gli interventi elencati al comma 2”, in altri termini i committenti.

Il successivo comma 6 chiarisce cheil recupero dell’importo di cui al comma 5 è effettuato nei confronti del soggetto beneficiario di cui al comma 1, ferma restando in presenza di concorso nella violazione con dolo o colpa grave, oltre all’applicazione dell’articolo 9, comma 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, anche la responsabilità in solido del fornitore che ha applicato lo sconto e dei cessionari per il pagamento dell’importo di cui al comma 5 e dei relativi interessi”

In tale contesto, il comma 6 bis interviene ad interrompere la catena di responsabilità: il terzo cessionario che sia in possesso della documentazione indicata nel decreto, non può essere richiesto del recupero “dell’importo di cui al comma 5”.

In definitiva parrebbe che l’intento del legislatore sia quello di dare certezza al sistema delle cessioni e “salvaguardare” l’acquisto del terzo cessionario non coinvolto nella frode, impedendo all’Agenzia delle Entrate di recuperare nei suoi confronti il credito ancorché inesistente, in aperta deroga alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato articolo 121 del DL 34/2020.

Tale intervento sembrerebbe tutelare il diritto degli acquirenti del credito che, per quanto diligenti ed accorti, anche all’esito di un’accurata due diligence non hanno alcuna possibilità di difendersi dal rischio di sopravvenuta inesistenza del credito.

Ciò può avvenire, peraltro, sia laddove a monte siano stati commessi reati, (ad es. una falsa asseverazione dei lavori) sia nel caso – che diverrà ahimè frequente alla scadenza del 31/12/2023 – in cui per qualche ragione i lavori NON siano terminati o, a lavori ultimati, per qualche ragione non si sia realizzato il salto di due classi energetiche.

In tutte le dette ipotesi, in presenza di un credito inesistente (originariamente o per eventi sopravvenuti) l’Agenzia delle Entrate potrà recuperare il credito dal committente (sempre), dall’impresa che ha ricevuto lo sconto in fattura (quasi sempre), ma non potrà mai recuperarlo dal terzo in buona fede che possegga il “dossier” documentale indicato dalla citata norma.

Oppure no…?

Ok, abbiamo scherzato…

Tutti tranquilli, dunque?

Non proprio… in realtà il DL 11/2023 si limita a dire che il terzo in buona fede “non è responsabile” in sede di recupero della somma pari al credito ceduto. Ma non dice mai che, in assoluto il suo acquisto sia salvo!

Non dice mai, in particolare, che quel credito acquistato in buona fede potrà davvero essere goduto e che l’altra parte del rapporto sinallagmatico, cioè lo Stato, al momento opportuno, sarà adempiente alla propria promessa.

Anzi, l’esperienza di queste settimane conferma che sono molteplici i sequestri impeditivi ordinati in sede di indagini preliminare su richiesta dei PM, sempre sulla base dello stesso ragionamento (devo impedirti di aggravare il danno per lo Stato) e nonostante quanto previsto dal DL 11/2023.

Si tratta, evidentemente di un’enorme operazione di “scarica-barile” ai danni di soggetti incolpevoli che, prestando fede ad una promessa di tutela del loro acquisto da parte dello Stato non mantenuta, resteranno, all’esito di questa vicenda gli unici veri soggetti danneggiati dal reato, non potendo recuperare alcunché dalla società cedente (che nella maggior parte dei casi sarà già fallita!).

In tale situazione risulta percepibile in modo evidente l’ingiustizia che colpisce i soggetti cessionari.

Un’ingiustizia che, peraltro, mina le stesse basi del contratto sociale e che, in quanto tale, solleva pesanti sospetti di tenuta costituzionale in relazione agli artt. 3, 42 e 117 Cost. in relazione all’art. 1 prot. 1 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

Una situazione compatibile con i principi costituzionali?

Sotto il profilo dell’art. 3 Cost. la tesi interpretativa della Corte di Cassazione (il cd. “diritto vivente”) determina una situazione di disparità di trattamento fra cessionari di crediti inesistenti, a seconda delle ragioni che hanno determinato l’inesistenza.

Come osservato supra infatti, l’inesistenza del credito potrebbe derivare non dalla commissione di reati a monte, ma anche – più banalmente – da un mancato rispetto dei termini di ultimazione dei lavori stabiliti dalla legge o ancora dalla mancata integrazione del requisito del “salto” di due classi energetiche dell’edificio una volta ultimati gli stessi.

In tali casi la situazione sarebbe sempre la medesima: il credito diviene inesistente anche con riferimento alle “porzioni” già cedute e l’Agenzia delle Entrate è titolata a recupero del medesimo nei confronti del soggetto in capo al quale il credito si era generato (committente) e, ricorrendo il caso della corresponsabilità, nei confronti dell’impresa cessionaria mediante lo sconto in fattura.

In tali ultime ipotesi è pacifico che, pur a fronte di un credito inesistente, è precluso allo Stato il recupero nei confronti del terzo cessionario in buona fede, ossia di chi ha acquistato il credito dall’impresa che, a sua volta, lo aveva ricevuto mediante sconto in fattura. 

Consentire il recupero del credito inesistente laddove sia ipotizzata la commissione di un reato, malgrado la buona fede del cessionario e non consentirlo nelle medesime condizioni, laddove l’inesistenza non sia determinata da un reato a monte, pare integrare un trattamento difforme di due situazioni del tutto analoghe (credito inesistente), sulla base di un parametro (le ragioni dell’inesistenza del credito) la cui conoscibilità è del tutto preclusa al soggetto cessionario.

Sotto il profilo dell’art. 42 Cost. la violazione del dettato Costituzionale è ancora più evidente. 

L’affermazione secondo cui “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” contrasta apertamente  con quanto si è verificato in concreto, tantopiù se si considera anche il secondo comma: “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”.

Nel caso di specie, non solo non si dà tutela ad una proprietà (il credito) legittimamente acquistata – per giunta in un contesto di agevolazioni previste proprio dallo Stato per sostenere finanziariamente una misura, quella del “Superbonus 110”, che altrimenti sarebbe naufragata – ma, in nome di un presunto “interesse generale” dell’Erario si rende indisponibile il credito così acquistato, di fatto espropriandolo senza alcun indennizzo per l’incolpevole proprietario.

…e come la mettiamo con la CEDU?

In ultimo, l’interpretazione adottata dalla Cassazione appare contrastante con l’art. 117 Cost. in relazione con l’art. 1 prot. 1 CEDU che sancisce:“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Tale disposizione, che trova ingresso nell’ordinamento interno via l’art. 117 Cost. garantisce in modo ancora più intenso rispetto all’art. 42 Cost. il diritto al rispetto dei beni di proprietà privata da parte dello Stato, ammettendo, sì, limitazioni connesse con cause di pubblica utilità, ma solo entro i limiti della legittima interferenza dello Stato.

Secondo la Giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, infatti, in caso di diritti cd. “relativi”, che ammettono cioè un certo grado di temperamento fra l’interesse statuale e l’interesse del singolo, le interferenze dello Stato nel godimento del diritto debbono possedere le seguenti caratteristiche:

  • debbono avere una base legale pre-definita, accessibile, conoscibile e prevedibile
  • debbono avere uno scopo legittimo
  • debbono essere strettamente necessarie al raggiungimento dello scopo 
  • debbono essere proporzionate al sacrificio richiesto 

Sul punto, i dubbi di tenuta costituzionale del sequestro impeditivo dei crediti, nell’ottica convenzionale nascono già al primo livello di indagine, non tanto in ordine alla sussistenza di una base legale, quanto in ordine alla “conoscibilità” effettiva della stessa, e soprattutto della prevedibilità dell’interferenza.

Occorre osservare in tal senso che prima della pubblicazione delle cinque sentenze del novembre 2022 sul tema del sequestro impeditivo dei crediti, il terzo cessionario ben poteva considerarsi tutelato dall’ordinamento, anche alla luce della circolare dell’Agenzia delle Entrate Circolare n. 24/E de11 18 agosto 2020 la quale precisava che se un soggetto acquisisce un credito d’imposta ma durante i controlli dell’Enea o dell’agenzia delle entrate viene rilevato che il contribuente non aveva diritto alla detrazione, non perde il diritto ad utilizzare il credito d’imposta inserito”.

Argomenti interpretativi di identico segno si rinvenivano peraltro sia dalle dichiarazioni del direttore dell’agenzia delle entrate nel corso dell’audizione tenutasi davanti alla commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria del 18 novembre 2020, in cui egli stesso aveva precisato che il fornitore o il cessionario che acquisisce il credito non perde il diritto ad utilizzare il credito di imposta, sia infine nella nota diffusa dalla Banca d’Italia int data 05 gennaio 2021.

Sotto il profilo della prevedibilità dell’interferenza, la discussione richiamata anche dalle citate sentenze della Cassazione sul diverso “rango” delle fonti normative è sterile e del tutto inconferente.

La natura di fonti secondarie o addirittura di prassi di tali documenti comunque di provenienza Statuale, risulta del tutto irrilevante ai fini che ci occupano poiché a prescindere dal grado di “forza” dei testi considerati, gli stessi si inseriscono a pieno titolo nel contesto interpretativo delle norme primarie che, già di per sé lasciano trasparire una volontà di tutelare l’acquisto del credito da parte di soggetti terzi – estranei alla sua formazione – e in buona fede.

Pertanto, l’applicazione del sequestro interdittivo, nel caso concreto, appare privo di base legale, non per la mancanza di una disposizione legislativa (l’art. 321 c.p.p. evidentemente era già esistente), ma perché l’interpretazione della normativa sulla cessione dei crediti di imposta che al momento della cessione si era consolidata anche sulla base delle circolari dell’Agenzia delle Entrate portava a concludere che l’acquisto del credito da parte del terzo in buona fede fosse comunque “salvo”.

A tale conclusione consentiva di giungere la stessa formulazione letterale della norma: in nessun caso il legislatore ha mai parlato di disconoscimento/annullamento/azzeramento del “credito di imposta”, ma sempre e solo di “recupero dell’importo corrispondente alla detrazione non spettante”.

Recupero che, per l’appunto può essere esercitato solo nei confronti del (primo) beneficiario ed eventualmente dei soggetti cessionari (mediante sconto in fattura o mediante ulteriori cessioni), e, in questo ultimo caso, solo in caso di loro dolo o colpa grave.

La successiva interpretazione formulata dalla Cassazione, in senso diametralmente opposto e spinta ad affermare la possibilità di materiale apprensione del credito fiscale e l’irrilevanza della buona fede del terzo cessionario, in spregio al testo normativo, si configura pertanto, a giudizio di chi scrive in un vizio di mancanza di base legale dell’interferenza e, più in generale, in una mancanza di “sicurezza giuridica” nel lessico della Corte EDU.

Né pertanto tale censura è l’unica ipotizzabile, posto che anche in sede di valutazione della “necessità” e della “proporzionalità” dell’interferenza sorgono pesanti dubbi.

Proseguendo nella disamina delle criticità del caso concreto sotto il profilo del rispetto dell’art. 1 prot. 1 CEDU si rileva che certamente lo scopo perseguito con l’interpretazione sposata dalla Corte di Cassazione sia legittimo, per quanto non primario.

Si apre pertanto la necessità di valutare, nel bilanciamento degli opposti interessi, se la misura sia necessaria in una società democratica per il raggiungimento dello scopo e se sia proporzionata al sacrificio richiesto all’individuo.

Anche tali parametri paiono difettare.

La tutela dell’interesse statuale a non subire perdite di imposta mediante l’utilizzo di un credito “inesistente”, nel caso concreto può certamente trovare soddisfazione aliunde, mediante il sequestro preventivo diretto nei confronti dei soggetti responsabili o mediante sequestro per equivalente nei confronti dei legali rappresentati delle società coinvolte nei reati di truffa o emissione di fatture false, senza necessariamente incidere sul patrimonio di terzi del tutto estranei a quei reati, che hanno acquistato il credito confidando nella genuinità dello stesso.

Peraltro, la stessa terminologia impiegata dal legislatore parrebbe deporre nel senso che oggetto del recupero sia una somma “corrispondente” al credito di imposta e non il credito di imposta stesso.

Né peraltro l’interesse patrimoniale dello Stato è tale – nella sistematica della Convenzione – da essere tutelato a prescindere dal sacrificio imposto all’individuo, anzi!

L’art. 1 prot. 1 CEDU anche nei casi in cui ammette che, per la prevalenza dell’interesse pubblico, il bene venga limitato nel suo godimento o addirittura espropriato, impone che il soggetto inciso da tale misura venga adeguatamente indennizzato per la sua perdita e non in modo puramente simbolico.

Tale circostanza – che corrisponde peraltro allo stesso principio enunciato nell’art. 42 Cost. In tema di esproprio – non può essere liquidata semplicisticamente (come sembra fare la Corte di Cassazione) demandando la tutela di quel credito alla sede fallimentare o comunque ad un rapporto diretto di recupero del credito con il soggetto che lo ha fatto (fittiziamente) sorgere, perché tale impostazione costituirebbe comunque una violazione della CEDU, sotto il profilo del non aver apprestato misure adeguate a tutelare l’interesse patrimoniale del privato che viene così sacrificato.

Tutto ciò, con l’aggravante, per lo Stato Italiano, di aver predisposto un quadro normativo di favore, limitando i casi di recupero del credito fiscale alle sole ipotesi di concorso nel vizio invalidante, al fine di incentivare il finanziamento da parte dell’economia reale di una misura che – dal punto di vista economico – senza il meccanismo delle cessioni non poteva stare in piedi.

In definitiva lo Stato crea normativamente il credito (di cui è debitore diretto); consente di cederlo a determinate condizioni, perché la misura agevolativa si possa sostenere finanziariamente con il denaro di soggetti privati cessionari, assicurando che – in caso di scoperta di irregolarità – il recupero verrà effettuato in capo a chi le ha commesse, e mai in capo al soggetto cessionario in buona fede… salvo poi cambiare idea, sequestrare il credito di imposta, non onorare il debito che ha assunto e garantito nei confronti del cessionario, ed invitarlo ad accomodarsi fra i creditori chirografari di un’azienda nel frattempo fallita.

Pare a chi scrive che una tale situazione non sia in nessun modo ammissibile in nessuno stato di diritto che voglia ritenersi tale. 

Avv. Alberto Michelis