Il tema del riconoscimento dei costi in sede di accertamento rappresenta da sempre un punto cruciale per la determinazione del reddito imponibile: a fronte di un maggior ricavo, determinato in maniera induttiva sulla base degli elementi acquisiti nella verifica fiscale, è necessario individuare anche quali costi deve aver sostenuto l’impresa per produrlo, al fine di calcolare il “reddito”.
E’ questo un punto essenziale ed ormai acquisito, a seguito di una decisiva pronuncia della Corte Costituzionale (n. 10/2023).
Ma non è sempre stato così.
Questo articolo intende illustrare le implicazioni di questi cambiamenti, in particolare riguardo all’accertamento analitico-induttivo.
Il principio generale della previa imputazione dei costi
Prima di addentrarci nel tema, è fondamentale comprendere il principio generale che regola la deducibilità dei costi.
L’Art. 109, comma 4, del T.U.I.R. stabilisce che spese e altri componenti negativi sono ammessi in deduzione solo se e nella misura in cui risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza.
Questo principio mira a garantire la compatibilità tra la disciplina fiscale e quella civilistica del bilancio, contrastando il fenomeno dei “costi neri” e impedendo la distribuzione di utili fittizi.
Tuttavia, il legislatore e la giurisprudenza hanno riconosciuto alcune deroghe.
Ad esempio, è ammessa la deduzione di costi non specificamente evidenziati nel conto economico ma desumibili dalle scritture contabili. Inoltre, sono state introdotte specifiche previsioni per i componenti di reddito imputati direttamente a patrimonio netto, equiparandoli all’imputazione a conto economico ai fini fiscali.
Un’altra deroga importante riguarda le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi che, pur non risultando imputati al conto economico, concorrono a formare il reddito, a condizione che risultino da elementi certi e precisi.
Questa previsione consente di dedurre costi non contabilizzati (“costi neri”) che l’Ufficio, una volta scoperti, utilizza per determinare presuntivamente i connessi ricavi.
L’obiettivo è sempre lo stesso: rispettare il principio di correlazione “costi-ricavi” e il principio costituzionale di capacità contributiva.
L’accertamento analitico-induttivo e l’onere della prova: la situazione pregressa.
L’accertamento analitico-induttivo, disciplinato dall’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973, consente all’Amministrazione Finanziaria di rettificare singole voci della dichiarazione, anche con l’uso di presunzioni qualificate (gravità, precisione, concordanza).
In questo tipo di accertamento, la giurisprudenza costante e l’Agenzia delle Entrate avevano tradizionalmente affermato che l’onere di dimostrare l’esistenza dei presupposti per la deducibilità dei costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi era interamente a carico del contribuente.
Non era previsto, in questo contesto, un riconoscimento forfetario dei costi da parte dell’Ufficio.
La Guardia di Finanza, nella sua circolare n. 1/2018, aveva ribadito che potevano essere dedotti solo i costi provati da riferimenti documentali certi e precisi.
Questa posizione era particolarmente penalizzante in caso di accertamenti basati su indagini finanziarie (Art. 32, D.P.R. n. 600/1973).
In questo caso infatti i prelevamenti bancari non giustificati possono essere posti a base di rettifiche come ricavi.
Nel quadro giurisprudenziale prevalente, si affermava che contribuente avesse l’onere di dimostrare, con prova specifica, di aver sostenuto quei costi, senza che fosse lecito presumere che, in ogni caso, a ricavi occulti necessariamente corrispondano costi occulti.
Questo approccio creava una addirittura una disomogeneità penalizzante rispetto all’accertamento induttivo “puro” (Art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973), applicato in caso di contabilità inattendibile o omessa, dove l’Ufficio era onerato di riconoscere una deduzione percentuale o forfetaria dei costi di produzione.
La Sentenza Corte Costituzionale n. 10/2023
Un cambio di rotta significativo è avvenuto con la sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 31 gennaio 2023.
Questa pronuncia ha posto fine a numerose controversie, stabilendo un principio fondamentale: in caso di accertamento analitico-induttivo basato sulla presunzione di ricavi non dichiarati a seguito di prelevamenti bancari non giustificati, l’imprenditore può sempre chiedere che gli venga riconosciuta l’incidenza percentuale dei costi relativi, i quali vanno dedotti dall’ammontare dei prelievi non giustificati.
La Corte Costituzionale ha evidenziato che la presunzione sui prelevamenti è “duplice”: i prelievi non giustificati fanno presumere costi occulti, che a loro volta si presumono aver generato ricavi non contabilizzati.
Pertanto, un sistema che non consentisse la deduzione dei costi sostenuti per produrre tali ricavi violerebbe i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva (Art. 53 Cost.).
Tassare una ricchezza inesistente, senza dedurre i costi, è incostituzionale.
Questa sentenza ha di fatto superato la precedente giurisprudenza costante che imponeva al contribuente di dimostrare la sussistenza di specifici costi con elementi di prova concreti. Il riconoscimento della detrazione dei costi, in relazione ai prelevamenti non giustificati, si avvicina ora al regime forfetario proprio dell’induttivo puro.
L’adeguamento della Corte di Cassazione e l’estensione del principio
La Corte di Cassazione si è prontamente adeguata a questo nuovo indirizzo interpretativo.
Ha precisato che, a fronte della presunzione legale di ricavi occulti da prelevamenti bancari non giustificati, l’imprenditore può sempre eccepire la incidenza percentuale dei costi relativi, anche in caso di accertamento analitico-induttivo.
Inoltre, la Cassazione ha stabilito che, qualora tali costi non siano riconosciuti dall’Amministrazione finanziaria, spetta al giudice di merito accertare l’ammontare dei costi sostenuti per la produzione del reddito, quantificandoli in via presuntiva, anche con riferimento alle “medie” elaborate dall’Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento o a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio.
Ma il principio vale solo per gli accertamenti basati sulle indagini finanziarie o è un principio generale?
La questione è stata molto dibattuta.
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 2344 del 2024, ha già esteso il riconoscimento dei costi in misura forfetaria anche a ipotesi di accertamento analitico-induttivo diverse da quelle basate su indagini finanziarie, come i casi di sottofatturazione delle vendite.
L’ interpretazione in oggi prevalente (sostenuta anche in dottrina) è che il principio affermato dalla Corte Costituzionale debba estendersi a tutti i casi in cui l’Ufficio delle Entrate, avendo scoperto dei “costi neri,” utilizzi tale scoperta per determinare, in via presuntiva, i connessi ricavi.
In queste situazioni, l’Amministrazione finanziaria stessa riconosce l’esistenza di costi non contabilizzati, rendendo applicabile la deroga dell’art. 109, comma 4, lett. b), ultimo periodo, che consente la deducibilità di spese e oneri correlati a ricavi non imputati al conto economico.
Pertanto, ogni qualvolta l’Amministrazione Finanziaria utilizzi presunzioni per recuperare a tassazione ricavi non dichiarati, essa stessa crea il presupposto per l’applicazione del principio di correlazione, consentendo al contribuente di dedurre i costi “occulti” che hanno contribuito a generare quei ricavi, anche attraverso una prova presuntiva.
Se, invece, l’accertamento dei ricavi non è fondato sulla prova del sostenimento di questi “costi neri” da parte dell’ufficio, le spese e gli oneri dovrebbero rimanere deducibili solo se risultano da elementi certi e precisi.
Quali implicazioni per l’imprenditore?
La sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2023, e la successiva giurisprudenza della Cassazione, rappresentano una svolta cruciale.
Di fronte a un accertamento analitico-induttivo (specialmente quelli derivanti da indagini bancarie su prelevamenti non giustificati), viene attenuato l’onere probatorio per il contribuente che non è più obbligato a fornire una prova analitica e documentale di ogni singolo costo.
Viene riconosciuta pertanto la possibilità di eccepire l’incidenza percentuale dei costi, che potranno essere determinati in via presuntiva dal giudice, anche attraverso medie di settore o consulenza tecnica.
Questo rafforza la tutela del contribuente, garantendo che l’imposizione avvenga sulla capacità contributiva effettiva, evitando la tassazione di una ricchezza meramente presunta senza considerare i costi di produzione.
Ciò ovviamente non deve essere interpretato come un incentivo a non tenere una contabilità corretta…
E’ infatti fondamentale per l’impresa tenere una contabilità accurata e completa, perché, in caso di accertamento, è quello il primo strumento per dimostrare l’inerenza e l’effettività dei costi, ed il miglior “biglietto da visita” che può essere esibito dall’impresa ai verificatori.
Avv. Alberto Michelis